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Burnout: Prevenzione dello Stress lavoro correlato

18. Febbraio, 2016 | Posted by Veronica Sarno | Categories: Professione, Salute
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A questo proposito, con l’intenzione di lanciare una provocazione che spero possa sfociare in un confronto, mi sono preso la briga di invitarvi alla lettura di un articolo tratto dal numero 204 di FOCUS ottobre 2009, intitolato “Le tre chiavi per il successo”. Nel suo articolo l’autrice fa riferimento al successo raggiunto da grandi performer nel campo sportivo, artistico ed imprenditoriale, indicando che studi scientifici hanno identificato il successo come un mix di tre componenti fondamentali: impegno, appartenenza sociale e caso. In merito all’impegno, si deve conseguire una pratica di almeno 10.000 ore (che equivalgono a dieci anni di duro lavoro, con obiettivi sempre nuovi e sfidanti) per potersi considerare virtuoso in un campo della vita; la tensione verso l’eccellenza e la motivazione giocano qui un ruolo fondamentale. La famiglia fornisce una cultura alla relazione con il mondo esterno e insegna al giovane a porsi con rispetto ma con determinazione nel sostenere le proprie tesi o nell’affermazione delle proprie idee. Il caso è quella componente random che agevola chi sa approfittarne. Ora, la mia provocazione è questa: possiamo traslare questi concetti al mondo dei lavoratori talentuosi? Oggi una persona di talento in ambito lavorativo (in questa sede intendo un dipendente, quadro o dirigente, non l’imprenditore) potrebbe essere un brillante laureato, colui cioè che ha impiegato correttamente le diecimila ore di tempo (dalla scuola superiore sino all’università), ma il discorso può e, a mio avviso, deve essere esteso alla costruzione del talento sul campo, quindi dovremmo considerare che occorrono altre diecimila ore di pratica on the job… Chi si assume la responsabilità sociale ed aziendale di far sviluppare con anni di pratica competenze e talento in capo alla persona? Quanto può essere lungimirante un’azienda, in un’ottica di controllo dei costi, di puntare su un laureato e dedicargli il tempo necessario affinchè possa esprimere il suo talento nel lavoro/nell’azienda? Chi si assume la responsabilità di investire questi sforzi in una persona piuttosto che in un’altra? Ed ancora, un brillante laureato che ha conseguito il titolo nei giusti tempi può diventare un talento? Può essere una persona capace di autogenerare motivazione per lunghi periodi, di tendere verso l’eccellenza? Ricordo che uno dei tre fattori citati dall’autrice dell’articolo è l’impegno costante per anni e questo necessita senz’altro di un’elvata dose di automotivazione… Ed altresì, un giovane laureato non brillantissimo ma fortemente motivato sul lavoro, curioso, osservatore, ambizioso, può arrivare ad essere un elemento giudicato talentuoso e su cui puntare? Quanto contano, quindi, le potenzialità insieme/in opposizione a dati oggettivi come, ad esempio, il voto di laurea? Ed ancora, i responsabili delle risorse umane hanno sempre la possibilità di “annusare” un talento tra quest’ultima categoria di laureati? Che cosa ne pensate? Articolo di Riccardo Borgna Riccardo Borgna Associato  AFP Associazione Formatori Professionisti https://it.linkedin.com/in/riccardoborgna foto in alto: Looking Glass / Fernando de Sousa on flirk Hai trovato interessante questo articolo? Lasciaci un commento !  o invia l’articolo a qualcuno a cui potrebbe interessare Ti interessi di formazione professionale? Vuoi avere la possibilità di scaricare meteriale gratuito per la tua formazione? Registrati subito ! E’ Gratis ! Avrai la possibilità di Accedere ad una grande quantità di Materiale professionale per la tua Formazione: Slide, Corsi gratuiti, articoli, audio, video, downloads software, strumenti per la tua formazione, e tanto altro! 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